Pierluigi Billone
Nel contatto con uno strumento (un Trombone per es.) l’intero corpo entra in un gioco di relazioni che mi sono ignote. Qui sperimento e pratico una distanza che non è quella dell’ascolto ma del contatto e della corrispondenza. Lo strumento nelle mie mani è una cosa ignota, totalmente misteriosa e per questo inerte, ancora senza voce. Il corpo e la cosa devono ancora trovare dei punti di equilibrio, armonizzarsi, e in questi tentativi incontro e scopro ciò che permette la possibilità e la nascita di qualsiasi vibrazione
Sperimentare liberamente la distanza che separa-lega il vibrare indefinito di una cosa e l'apparizione di un suono, richiama tutte le nostre capacità di attenzione, di adattamento respiratorio e motorio, di comprensione immediata della natura della cosa-strumento, ecc: integralmente.
L'esperienza di questo vibrare indefinito e questa distanza percorsa restano depositate nell’ascolto: come consapevolezza che una vibrazione si stacca sempre da uno *Sfondo, apre ogni volta un proprio e unico spazio di esistenza nella materia e in un particolare equilibrio con il corpo (e non si tratta di una consapevolezza discorsiva o intellettuale, ma di uno strato vivo della conoscenza, così come l'aver imparato a camminare che riaccade in ogni passo -anche se non viene pensato ogni volta).
Incontrando la musica io ascolto-vedo-partecipo-bocca-mano-corpo-pensiero integralmente, mi armonizzo (o no) a ciò che sta accadendo in mia presenza.
Le mie facoltà vive mi riaprono indefinitamente verso lo *Sfondo da cui ogni musica si profila e si stacca, distinguo lo spazio aperto che offre o il cerchio chiuso da cui nasce o in cui si è confinata.
Se mi apro completamente nel contatto con lo strumento, ciò che incontro ogni volta è sempre una sua *Voce ignota, e una mia capacità di attenzione prima sconosciuta. Se incontro il suono tradizionale si tratta di una delle tante presenze di questo orizzonte ed è una voce ignota tanto quanto le altre. Non quando l’ascolto, ma quando la faccio (e così la incontro). Il mio corpo non sa ancora nulla di questo suono, sebbene lo abbia vicino da sempre e in mille modi nella distanza dell’ascolto. Non lo so riprodurre meccanicamente, non so come mantenerlo stabile, non so quale azioni del mio corpo lo modificano, non so articolarlo, non conosco la natura e il funzionamento dello strumento e quindi non posso mettere in relazione azione e risultato, ecc: non so assolutamente niente. Fra questa mancanza totale di conoscenza diretta e la mia familiarità totale all’ascolto del suono tradizionale c’è un vuoto (che nessuna spiegazione può sperare di colmare).
Chi non ha mai provato a suonare uno strumento a fiato o ad arco forse non arriva a comprendere e non dà senso a questa esperienza elementare (che il pianoforte rischia sempre di far dimenticare...). Il suono che la tradizione ci consegna è una delle voci più forti che parlano dentro di me prima ancora che io possa distinguerle, se rimane tale resta il centro evidente o nascosto (oppure un ostacolo), in ogni caso un punto di riferimento obbligato.
Ma se lo incontro in un cammino consapevole di scoperta e apprendimento, la prospettiva cambia. Da un lato, nulla mi obbliga a concentrarmi sul suono tradizionale come se fosse l’unico obiettivo da raggiungere e a farne il centro privilegiato rispetto a cui si dispone tutto il resto. Dall’altro, la mia sensibilità ha già avvertito che mi è necessario un orizzonte più ampio, a cui già appartengo, ...altrimenti non avrei messo le mani sullo strumento.
Se sviluppo consapevolmente una tecnica strumentale a me ancora ignota fino a padroneggiarla (ad es. un suono e la voce insieme nel trombone), contemporaneamente si apre in me uno spazio. In questo caso il doppio suono che nasce (e la cui possibilità di esistenza non dipende dalle mani, né vedrò o saprò mai realmente quale fenomeno tecnico stia accadendo) mi mette di fronte alla particolare evidenza di un rapporto: io e lo strumento non siamo distinguibili. Questa esperienza muta il mio rapporto con il suono: tutto mi "parla" come "suono che apre-scrive il corpo" e come "corpo che apre-scrive il suono".
In un Multifonico del Fagotto, ad es., spesso è impossibile distinguere quali suoni lo compongono, con quale peso e quale ruolo. E’ come una costellazione (le Pleiadi per es.) dove la luminosità generale e il rilievo delle stelle immediatamente distinguibili dipendono da quelle sullo sfondo, che però restano indistinguibili. E’ uno stato particolare e unico di equilibrio fra vibrazioni, non appena comincio a manipolarlo per isolarne le parti, si modifica. Fino a quando in me non si apre una attenzione corrispondente non so come entrare ulteriormente in rapporto con queste vibrazioni (a parte manipolarle come un oggetto-suono con la mia tecnica di compositore...)
Quando finalmente questa capacità di attenzione si apre, è mutato il mio modo di ascoltare. Qualsiasi suono (anche il più semplice e familiare) ora rivela una dimensione, dei poli e non separabili , un "interno" con uno spazio e una vita ritmica, un "dentro ignoto che si apre", un "dietro" non immediatamente percepibile, una "dis/omogeneità" particolare e unica, sempre una presenza a più strati, noti e ignoti. Così comprendo che il suono tradizionale (che ora mi sembra completamente diverso e particolare) ha sempre tenuto immobile in me uno spazio enorme della capacità di ascoltare. E’ mutata la mia generale sensibilità e attenzione verso la differenza e la distanza dalle cose con cui sono in rapporto - che sembrano avere sempre una *Voce che mi riguarda.
Qui il *Canto è dappertutto e così la traccia plastica del lavoro della mano e della bocca. Il pezzo di metallo che cade appartiene interamente alla vita ritmica del tutto. La mano che prende il pezzo di metallo però si limita ad accoglierlo e lasciarlo cadere senza condizionarne la caduta e le conseguenze.
E’ come in campagna, un albero che indica il confine tra due campi e appartiene ad entrambi. Tutto la mia ammirazione e gratitudine particolare a Lorelei Dowling (Fagotto), Andreas Eberle (Trombone), Krassimir Sterev (Accordeon), Christoph Walder (Corno) interpreti del Klangforum Wien , per i preziosi momenti dello studio insieme.
Federico De Leonardis: Pastorale e Catena 1987