Pierluigi Billone
home  contatto  

Intervista Pierluigi Billone - Joan Gómez Alemany (2022)

Joan Gómez Alemany & Pierluigi Billone


J.G.A. Come potresti spiegare i titoli delle tue composizioni? Solitamente creati da monosillabi "privi di significato", hanno un'origine o un'influenza specifica? Poiché si trovano costantemente in molti dei tuoi lavori, rispondono a un'idea sistematica di comprendere la tua creazione e darle un nome?

La parola Mani (immagino mano in italiano) è comune in molti dei tuoi titoli. Ha qualche significato particolare, visto che non risponde ad una parola descrittiva come Legno, comune anche nei suoi titoli e che possiamo facilmente associare allo strumento o al suono? La parola mano trovo che sia più ambigua e interessante. Riassumendo, puoi spiegarci l'uso curioso e originale dei tuoi titoli in generale?

P.B. I titoli che preferisco sono, ad esempio, quelli di Morton Feldman come Piano and Orchestra, Violin and Orchestra, che sono come una parola “senza suono” o un vetro trasparente. Questi titoli da catalogo sono così generici da sembrare vuoti, ma, non appena diventiamo familiari con il lavoro musicale, si trasformano in un nome potente, come quello di una montagna o di un lago. Questi lavori traggono il loro senso dalla loro consistenza musicale, non dal titolo, e così danno un senso concreto e unico a quel titolo. Paradossalmente potremmo osservare: in realtà è la musica che dà (o no) al titolo, la dignità di un nome vero … Io non ho la “grazia” di Morton Feldman…ma la questione mi è chiara.

Nel mio lavoro il titolo Mani. _____ è diventato definitivamente negli anni il nome di un vero e proprio ciclo di composizioni per percussione sola, anche se all’inizio è stato usato per un lavoro per Trio d’archi Mani.Giacometti (2000), e per grande Ensemble con solisti Mani.Long (2001), e ancora per Accordeon solo Mani.Stereos (2008).

Mani indica il ruolo centrale delle mani in tutti gli aspetti del lavoro (è spiegato ampiamente nella mia introduzione a Mani.De Leonardis (2004), e soprattutto di una sorta di “Intelligenza della Mano”, insostituibile, sempre attiva e comune a ogni aspetto del comporre. Ma non solo questo. Mani è anche una parola latina antica, che indica le anime dei defunti. Quindi Mani ha già un doppio significato.

Questa parte del titolo rimane invariata (potremmo considerarla un “cognome”), ma ogni volta si aggiunge un “nome”, che spesso ha più di un significato, che entra in rapporto e genera un gioco di riflessi (e possibili riflessioni) verbali. Se questo titolo è un nome, allora è un nome con un senso instabile, spesso doppio o triplo. Volutamente.

Facciamo due esempi:

Mani.Mono (2007) per springdrum. All’interno del senso generale del lavoro (Mani: mani, anime dei defunti), Mono indica la unità iniziale e indivisibile del suono dello strumento (che il lavoro fa esplodere in 100 modi). Mono è anche il nome di un lago molto particolare (Mono Lake), sacro ai nativi americani della California.

Mani.Gonxha (2011) per due tazze tibetane. All’interno del senso generale del lavoro (Mani: mani, anime dei defunti), Gonxha è il nome albanese per bocciolo (di un fiore), ed è anche Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, Madre Teresa di Calcutta. Definisco e decido definitivamente il titolo sempre alla fine del lavoro, quindi offro un nome a una realtà musicale già compiuta. Ovviamente posso solo sperare … che funzioni come il nome di una montagna.

 

J.G.A. Tutti i tuoi spartiti sono scritti a mano, non ne conosco nessuno al computer, cosa non molto comune nei compositori, dato che è molto più veloce, più comodo e più funzionale, da un certo punto di vista. Questo ha anche a che fare con il fatto che i compositori lavorano per case editrici che hanno uno scopo commerciale ed economico per rendere redditizio il tempo e il lavoro. In relazione a questo, pubblichi autonomamente le tue partiture e non sei diretto da nessun editore.

Potresti spiegare e specificare quali sono le tue idee su tutto questo, dal momento che non è usuale tra i compositori riconosciuti come nel tuo caso?

P.B. Ci sono interessanti esempi di compositori che sono anche auto-editore. Il più noto e considerevole è stato certamente Karl Heinz Stockhausen (Stockhausen-Verlag), che ha fatto un lavoro straordinario di edizione, presentazione e documentazione dei propri lavori, altrimenti impensabile.

Quando parliamo di un editore musicale ci riferiamo a un business specifico, che ha le sue ragioni e le sue caratteristiche. Nonostante oggi da un punto di vista tecnico ci siano possibilità editoriali prima inimmaginabili, stranamente l’editoria musicale commerciale è regredita a uno stadio elementare, assolutamente non creativo e completamente piatto e omologato (basta fare un confronto con gli anni ’60-80).

Un editore si occupa della edizione e della pubblicazione dei lavori, gestisce il materiale d’esecuzione, cura i rapporti con gli interpreti e gli organizzatori, crea le condizioni per nuove esecuzioni e commissioni di nuovi lavori, favorisce la diffusione e la conoscenza del lavoro del compositore, lo introduce ai rapporti con le istituzioni: diventa un tramite privilegiato fra il compositore e il mondo professionale (di cui l’editore è parte).

Si tratta però di un rapporto che molto spesso si sbilancia dalla parte dell’editore: cioè, il compositore rischia sempre di concepire il proprio lavoro in base alle attese e alle proposte dell’editore, che quindi diventa sempre di più un “datore di lavoro e un agente”, cioè non solo assiste il compositore nel lavoro, ma lo orienta e lo guida.

Perciò arriverà inevitabilmente il momento “necessario e irrinunciabile” del pezzo per orchestra, per pianoforte e orchestra, l’opera, il lavoro d’occasione e/o di intrattenimento, ecc. Se si considera una certa regressione culturale e musicale nel lavoro di molti Ensembles, delle Orchestre, delle Istituzioni di Teatro Musicale, e la tendenza ovvia degli editori a investire meno soldi possibili e a spingere per opere semplificate e/o d’intrattenimento si capisce meglio la situazione attuale: siamo all’interno di un’industria culturale con le sue necessità, il cui scopo è un business efficace.

Sono le condizioni di lavoro più consuete di un cosiddetto compositore in carriera. Per molti tutto questo è considerato non solo ovvio e normale, ma un punto di arrivo della propria attività, che coincide con un definitivo riconoscimento professionale.

Non è il mio caso. Tutto questo semplicemente non mi è mai interessato.

Quindi, per arrivare direttamente al centro della tua domanda, io ho sempre creduto nella possibilità di lavorare nel nostro campo professionale come un lavoratore indipendente. Essere un auto-editore per me è una delle condizioni necessarie per mantenere la mia indipendenza. L’autonomia di un compositore, la sua capacità di essere liberamente la fonte del proprio orientamento e di trovare sempre di nuovo le ragioni del suo lavoro, è essenziale, viene prima di qualsiasi altra cosa, e non sempre coincide con le aspettative di un editore.

Sulla conservazione di questa autonomia si fonda una possibile indipendenza professionale. Una indipendenza totale nel nostro campo professionale però, è pressocché impossibile, perché il nostro è un lavoro che si basa sul rapporto reale che lega compositore, performer, organizzatori, istituzioni e pubblico. Si tratterà quindi di gradi di indipendenza.

Ma è difficile e non è mai definitiva, perché il nostro campo professionale muta e soprattutto perché l’appartenenza a specifici gruppi culturali o “communities” di vario tipo, l’affiliazione alla “famiglia” di una casa editrice o di un festival, un certo conformismo opportunista, sembrano una condizione obbligata per poter essere riconosciuti professionalmente, o banalmente per poter lavorare.

Il compositore indipendente rischia sempre di rimanere al margine del campo professionale. Questa situazione però, può essere considerata anche un punto di forza e una condizione particolare di libertà (anche se pone molti problemi…).

 

J.G.A. Come vedi il panorama della musica contemporanea attuale in riferimento alla tua musica? Potresti iscriverti o identificarti in una qualsiasi delle tendenze attuali, o ti identifichi meglio con la musica degli ultimi decenni o del secolo scorso, dove ti ritrovi più contestualizzato? Forse il panorama della musica attuale è troppo eterogeneo e disparato per poter raggruppare insieme musica o creare scuole come si faceva in passato? O forse concepisci la tua musica più da una posizione personale, marginale o autonoma, all'interno della corrente?

P.B. Mi sembra necessario fare prima alcune considerazioni generali.

La musica occidentale scritta e la sua tradizione culturale hanno creduto per secoli e fino ad oggi di essere il centro, rispetto al quale tutto il resto è solo una periferia secondaria, persino indifferente. Invece è solamente il centro della propria dimensione, che è piccola, e circondata da uno spazio aperto e senza confini stabiliti.

La cultura del suono occidentale ha privilegiato un’unica prospettiva a partire da sé stessa e dalla sua concezione, e ha quindi esercitato un inevitabile principio di inclusione/esclusione. Questo punto di vista riferito al presente non avrebbe più ragioni di esistere, perché ignora più di quanto riesca a vedere, ma è incapsulato da sempre nella nostra pratica e cultura del suono, tramandato dall’educazione tradizionale e accademica, e quindi continua ad operare nel profondo. Io ho sentito questo punto di vista istintivamente e da subito come estraneo, poi ho dovuto impegnarmi molto per allontanarmi.

La situazione attuale della Musica in generale - se osservata apertamente e a 180 gradi - potrebbe forse essere paragonata a quella di una Galassia ancora in formazione o in disintegrazione, senza una forma definita, senza un centro riconoscibile e in costante movimento. Qualsiasi prospettiva scelta per considerarla e definirla è inevitabilmente parziale e ridotta, è l’esercizio di un unico punto di vista, non sarà mai in grado di abbracciare completamente un fenomeno che è costantemente in evoluzione.

In questa situazione, in cui noi siamo sempre una parte attiva e passiva perché operiamo e prendiamo parte a questo movimento, mi sembra che la cosa più importante ed interessante sia cercare di osservare almeno le linee di forza e il senso incerto di quanto accade. Ed è già un compito difficile, se si cerca una comprensione senza pregiudizi.

Se si cerca di considerare la musica, oltre il singolo punto di vista individuale, ci appare attualmente come una varietà caotica e confusa di prassi musicali e realtà culturali, in costante Espansione - Dispersione – Disgregazione, e in tutte le direzioni. Dove il Nuovo e il Vecchio, il Familiare e l’Estraneo, il Prezioso e il Senza Valore, giacciono contemporaneamente affiancati e separati, senza reciproci contatti reali, oppure incredibilmente mischiati, in un’attualità piatta, che annulla i limiti e rende tutto indifferente. Il nostro campo professionale, la cosiddetta “Musica contemporanea”, che è legata alle Università, ai Festival specifici, alle Istituzioni che la sostengono finanziariamente, è semplicemente una piccola porzione di questa realtà, e non sembra né la più importante né la più elevata (anche se crede sempre di esserlo).

Il punto cruciale mi sembra questo: se si osservano le cose con il distacco necessario e a un livello meno superficiale, diventa evidente che nella nostra attuale cultura occidentale le esperienze musicali sono vissute e considerate come quasi indifferenti, non sembrano in grado di riguardare realmente le nostre esistenze, di essere la fonte di una crescita individuale, quindi di innescare processi di evoluzione e mutamento profondi: sono declassate a periferia non- essenziale della vita, come una qualsiasi disciplina o un interesse particolare. In modo un po’ rude, potremmo dire che non ci aspettiamo nulla di essenziale dall’esperienza del suono. È un campo professionale qualsiasi, che ha la pretesa di essere artistico nel banale senso moderno del termine. Non credo di sbagliare, e mi dispiace ovviamente, se considero il nostro campo professionale come quello di un semplice intrattenimento culturale/intellettuale, spesso un intrattenimento tout-court.

Un semplice esempio è sufficiente: John Cage, personalità eccezionale, la cui opera ha avuto un influsso, una diffusione e una notorietà “enorme”, dovrebbe aver cambiato nel profondo e definitivamente il senso del termine suono e della pratica musicale occidentale. Ognuno può constatare facilmente se, come e a che estensione sia realmente accaduto, se questo mutamento ha messo delle radici. E se questo non è accaduto, forse è bene chiedersi perché.

Per rispondere più direttamente alla tua domanda, all’interno della Galassia Musica, il mio lavoro è poco più che un granello di polvere interstellare. Ovviamente, io penso e lavoro a partire dalla cultura da cui provengo e in cui mi sono evoluto, che è diversa da quella attuale, ed è facile riconoscere influssi (consapevoli e non) dei miei maestri reali (S. Sciarrino, H. Lachenmann) o ideali (L. Nono, I. Xenakis, K.H. Stockhausen, M Feldman e molti altri). Altrettanto facile è riconoscere influssi diretti-indiretti del Free Jazz, della Free Improvisation, di campi musicali fuori da quelli accademici, di culture e concezioni musicali estranee alla tradizione europea.

Come per chiunque, la porzione di mondo con cui vengo a contatto e con cui interagisco è certamente piccola e limitata. Ma, grazie al rapporto costante e interessato con i giovani, ho imparato ad ascoltare e riconoscere in qualsiasi espressione musicale la traccia di una necessità reale, che talvolta non mi parla direttamente ma mi riguarda sempre. Qualcuno ci ricorda che ogni posto è il centro del mondo…”.

Quindi, l’unico trend in cui mi riconosco completamente, è quello che mostra una passione senza pregiudizi e la convinzione che il lavoro al suono abbia un senso (prima, oltre e indipendentemente dalla professione riconosciuta di musicista) ed è una occasione reale di conoscenza per chi lo pratica e per chi vi entra in contatto.

 

J.G.A Cosa ne pensi dell'attuale onnipresenza della tecnologia e dell'ideologia del mercato che si ritrova in molte delle composizioni attuali e programmata nei più importanti festival del mondo e, nel tuo caso, è totalmente assente nel tuo lavoro? Quali connessioni o disconnessioni puoi trovare con questo tipo di proposta "musicale" con altre musiche come la tua musica o vicino alla tua estetica e ai tuoi riferimenti? Ha senso confrontarli o sono proposizioni molto diverse l'una dall'altra e senza relazione?

P.B. In linea di principio, un compositore dovrebbe essere sempre libero di concepire il proprio lavoro secondo i principi e i valori che gli sembrano giusti e necessari, anche quando questa scelta lo pone in diretto conflitto con l’establishment e lo relega al margine del campo professionale.

Se questo non è possibile, può sempre rinunciare o rifiutare.

Il nostro campo professionale non è solo intrattenimento e business, è un campo di lavoro creativo, un’occasione di evoluzione ed elevazione spirituale basato sulla consapevolezza del senso della nostra attività. Quindi, dovrebbe condurre ognuno a un impegno umano innanzitutto individuale, che riesca poi a irraggiarsi spontaneamente nella dimensione più ampia del sociale.

Faccio qualche semplice osservazione.

Il fatto che la tecnologia sia onnipresente e che anche il nostro campo professionale obbedisca a leggi di mercato specifiche (industria culturale), non è un motivo sufficiente per considerare questa condizione l’unica possibilità o un obbligo da rispettare.

Un orientamento oggi molto diffuso è che l’arte, per essere riconosciuta come attuale, per avere un senso condiviso, dovrebbe rispecchiare, riprodurre e mostrare i segni della propria appartenenza all’attuale cultura materiale. Non è necessario condividere questo orientamento.

L’attuale opinione di molti direttori artistici e molti performers, che un lavoro non ha più un reale interesse se è basato esclusivamente sul suono degli strumenti, senza trattamento elettronico, o visivo, o esteso ad altri campi, “fluido e/o ibrido” come si dice, è molto diffusa e ha una grande influenza sui giovani. Ma questo non è ancora un motivo sufficiente per rinunciare a investire le proprie migliori energie esclusivamente sul suono.

Ci sono molti modi diversi di essere musicisti e compositori.

Nella evoluzione di ognuno arriva sempre il momento di porre come priorità l’indipendenza e il senso di necessità del proprio lavoro, quando si riconoscono al suo interno principi e valori che devono poter esistere, perché superano la dimensione individuale e riguardano tutti. E questo indipendentemente da quello che viene considerato comunemente come attuale, importante o obbligato.

Che spazio reale di azione e di libertà esistono? Anche in questo caso ci sono gradi di libertà, che dipendono da fattori molto concreti. È impossibile generalizzare, e il mio esempio personale è uno fra altri cento, certamente non può servire da modello, quindi mi sembra inutile descriverlo.

Vorrei solo osservare che questa libertà non è una semplice opzione fra altre, è una decisione, che nel momento in cui si mostra e si afferma nella dimensione sociale diventa una presa di posizione, uno statement. E ha un costo. Negli anni 60-80 era certamente più semplice portare e mantenere questa libertà nel lavoro, perché era proprio questo che ci si attendeva. Oggi…non mi sembra.

 

J.G.A. Cosa risponderesti se qualcuno commentasse che la tua musica è cambiata molto poco in 30 anni, a differenza di alcuni tuoi referenti o antecedenti come Luigi Nono o Helmut Lachenmann, in cui si può trovare un'evoluzione molto marcata e dirompente durante un lungo processo nelle loro composizioni? Pensi più al tuo lavoro nel suo insieme e al suo sviluppo nel tempo da una prospettiva statica? Come alcuni compositori medievali o rinascimentali o anche Bach avevano, ad esempio, dove in tutta la loro produzione ci sono pochi cambiamenti. Oppure è questa idea ciclica di micro-variazioni ciò che conta per te rispetto a bruschi cambiamenti ed evoluzioni, che generano talvolta esiti e contrasti superficiali, come nel caso dell'evoluzione musicale di un compositore come Penderecki?

Riassumendo, ora con 30 anni di produzione musicale, in piena maturità creativa, come puoi giudicare da ora fino ai tuoi inizi, le tue opere in termini di progressione, staticità, evoluzione, cambiamento, ecc.?

P.B. Se qualcuno commentasse che la mia musica è cambiata molto poco in 30 anni, lo inviterei a conoscere meglio i miei lavori.

È certamente vero che è molto diverso percepire qualcosa dall’interno o dall’esterno, ma in questo caso abbiamo degli oggetti definiti, non è una questione di opinioni. Cerco di essere molto concreto e semplice, perché si tratta di più di 50 lavori… Tutto il mio lavoro è nato, soprattutto all’inizio, dalla pratica diretta del suono strumentale e della voce e dalla loro reciproca influenza. Cercavo un suono e dei rapporti che nascessero direttamente da una reciproca armonizzazione del corpo e della materia, e soprattutto mi interessava l’annullamento dei limiti e delle identità dei corpi sonori.

Dalla pratica diretta degli strumenti ad arco, in particolare dal violoncello e dal contrabbasso, sono nati tutti i miei primi lavori: il focus sulle proprietà del suono producibile con una corda, la struttura e la dinamica di stati complessi, principi meccanici di trasformazione, qualità e tipo di movimenti possibili, il senso della durata e delle differenze di durata influenzate dalla meccanica e dalla manipolazione degli strumenti, legami possibili fra suoni dal più elementare a quello più complesso, ecc. semplificando in una frase: che una voce possa vibrare come un contrabbasso e vice versa.

A partire da questa base elementare, che è molto concreta e che si arricchiva e si estendeva lentamente ad altri strumenti, ho costruito attraverso una proiezione visionaria tutto ciò che appare nei miei primi pezzi.

La scelta stessa degli strumenti in ensemble (assolutamente inusuale) lo mostra, per esempio Kraan Ke An (1991) per 3 Voci gravi, 2 percussioni (lastre di metallo), Chitarra Elettrica (che suona come se fosse uno strumento ad arco e/o una voce), Viola, 4 Violoncelli, 2 Contrabbassi con scordature. L’intero Ensemble, di fatto, può essere considerato un gigantesco e inusuale “contrabbasso a 13 corde”, dove ogni corda è uno strumento: tutto il suono degli strumenti e delle voci è ricondotto ad un’unità comune (costruita e visionaria). Questo ha reso possibile e contemporaneamente influenzato il modo di concepire la presenza del suono, il senso e la qualità della sua evoluzione, i principi ritmici che stanno alla base della costruzione del suo spazio di esistenza (il pezzo).

La caratteristica macroscopica più evidente di questi lavori iniziali è che si tratta di lenti ed estesi movimenti di trasformazione non lineare del suono e degli stati, estremamente elaborati in ogni singolo istante, in alcuni casi fino a stati acustici apparentemente caotici, che non conducono a nessun punto di arrivo riconoscibile, e quindi, per un ascoltatore occidentale sono situazioni “statiche”, senza sviluppo e senza una logica musicale immediatamente riconoscibile.

Melodie, accordi, armonie, articolazioni e ritmi elementari basati sulle articolazioni tipiche della musica strumentale, suoni isolati, attacchi brevi ed esplosivi, o i tipici materiali e oggetti sonori della “Nuova Musica”, contrasti diretti fra estremi, la logica e la retorica della costruzione basata sulla concezione del suono a parametri, ecc.: tutto questo non c’è.

Nel corso degli anni, altri strumenti sono diventati la fonte e la “matrice” elementare della materia sonora e dei rapporti che mi interessavano. Questo è estato possibile grazie alla pratica diretta del Clarinetto basso, del Fagotto, del Trombone, della Chitarra elettrica, delle Percussioni (dove il contatto con la materia è molto più aperto e meno influenzato dalla tradizione), e come sempre della voce, che via via è diventata (anche) una fonte privilegiata e in parte indipendente dagli strumenti.

Ognuno di questi strumenti, per una sensibilità moderna, è un corpo sonoro unico e una dimensione unica del suono: la materia di cui è fatto, la natura e il tipo delle vibrazioni e degli stati, il tipo di produzione del suono (come involve il corpo), il tipo di manipolazione, le sue possibilità aperte e ignote, ecc.

Tutto questo ha rinnovato e rigenerato il mio focus sul suono e sul tipo di rapporti che mi interessavano, ha aperto una diversa sensibilità all’instante, mi ha portato a considerare ogni strumento come una fonte che si apre imprevedibilmente e la cui materia non ha limiti prefissati, fino a mutare il senso dello spazio di esistenza del suono. È un mutamento profondo che ha prodotto consistenti conseguenze, e che ha richiesto un grande impegno.

In breve, se agli inizi degli anni 90 pensavo un ensemble di 13 strumenti e voci come un unico strumento, nel corso degli anni sono arrivato a considerare un ensemble come formato da strumenti unici e completamente indipendenti, dove ognuno fa apparire una dimensione unica del suono e questo ha generato e richiesto una diversa concezione. La trasformazione del suono come principio è rimasta, ma a partire da matrici molto diverse, che possono interagire e a più livelli, quindi sono in grado di generare dimensioni diverse all’interno di un singolo lavoro.

Basterebbe confrontare i miei primi lavori degli anni 90 con Mani.Long (2001) per Solisti e Ensemble, Mani.De Leonardis (2004) per sospensioni di automobile e vetro, 1 + 1 = 1 (2006) per 2 Clarinetti bassi, Dike Wall (2012) per percussione e Ensemble, Sgorgo Y, N, oO, (2013) per chitarra elettrica, Face (2016) per Voce e Ensemble, Mani.Amon per Gong Drum.

Ognuno di questi lavori non è pensabile a partire dagli altri. Mi sembra il segno più evidente di una reale evoluzione.

 

J.G.A. La tua musica è molto radicale in certi termini come la lunga durata delle tue composizioni, la dilatazione e la contemplazione del suono di fronte all'accelerazionismo attuale della nostra società e quindi della sua musica, l'uso di strumenti non convenzionali e il modo di usarli, ecc. La tua musica potrebbe essere concepita da certe posizioni critiche allontanandosi dai soliti formati a cui siamo abituati, questo inevitabilmente incide anche sulla divulgazione del tuo lavoro, che non rientra nelle normali aspettative, non solo di gente comune, ma degli stessi specialisti o persone abituate alla musica contemporanea. Per fare un esempio che chiarisca quanto detto, scrivere un lavoro per 2 clarinetti di 70 minuti è già un gesto radicale che si sa che interesserà a pochissime persone o addirittura apprezzeranno.

Commento tutto questo perché, a mio avviso, sebbene dal suono la tua posizione, diciamo "politica" e le sue conseguenze (nel senso di musica nel contesto socio-economico) è molto chiara e ferma, dal punto di vista concettuale, senso personale, ideologico o quando leggi i tuoi scritti, sembra che non ci sia alcuna dichiarazione o posizione su questo.

Forse non ti è stato presentato o hai avuto modo di mettere in relazione la tua prassi politico-musicale con la sua teoria? Non sei interessato a questi argomenti? Pensi che la musica debba parlare da sola senza fare riferimento a idee socio- economiche? O forse è troppo semplice definire qual è la posizione politica in cui dovrebbe inscriversi la tua musica, quale tipo di società sarebbe l'ideale per la sua ricezione, oppure tali riflessioni sono lontane dal campo del compositore e sono tipiche di altre persone o attività?

P.B. Una composizione è una offerta e un invito, si rivolge a un possibile ascoltatore interessato e crea contemporaneamente le sue condizioni d’ascolto. In Anton Webern per esempio, molti suoi lavori durano poco più di un respiro: sono e restano inafferrabili, e lo rimangono sempre anche dopo il decimo ascolto (6 Bagatellen Opus 9, 3 Stücke Opus 11).

Al contrario, molti lavori di Morton Feldman per esempio, sono una sorta di avventura senza limiti, dove l’ascoltatore si misura con durate e dimensioni che vanno oltre la capacità comune di attenzione (Triadic memories, Violin and string quartet). Sono tutte possibili dimensioni dell’esperienza dell’ascolto, semplicemente superano le convenzioni più consuete e banali.

Mi sembra una possibilità aperta a chiunque, che non ha nulla di radicale a mio parere, piuttosto è il segno di una libertà e una indipendenza creativa che decide e traccia da sé i propri limiti. Se l’esercizio di questa indipendenza creativa è in conflitto con le abitudini e le convenzioni più rigide di una audience e di una mentalità orientata solo all’intrattenimento, i lavori dovranno anche riuscire a superare questo ostacolo, e lo potranno fare solo grazie al loro livello creativo e alla loro capacità di generare un interesse autentico. Il compositore si troverà anche di fronte al problema di garantire una esistenza a queste opere, ma questo fa parte del lavoro.

Ora, tutte queste cose sono già incapsulate nelle caratteristiche del lavoro, non dipendono dalle parole che lo accompagnano, dalle prese di posizione pubbliche. Anzi, vorrei dire, o accadono con una certa spontaneità o non accadono, e certamente non accadono solo perché il compositore crea una identità supplementare ideologica e solo-verbale (bla-bla intellettuale) che accompagna la vita del lavoro. Potrà forse funzionare in un colloquio con un performer o un organizzatore superficiale e senza convinzioni proprie, o con chi non si aspetta nulla dalla esperienza del suono e ha bisogno di parole per dare un senso a quello che ascolta. Anche questo fa parte della nostra realtà professionale, è noto.

Nel momento in cui il mio lavoro si è concluso e il pezzo esiste ed è pronto per essere eseguito, a questo punto comincia (o no) la sua vita autonoma, il suo rapporto esclusivo e diretto con le persone interessate, ascoltatore dopo ascoltatore, che devono avere la totale libertà di trovare dei punti di contatto o rifiutarli.

L’ascolto, soprattutto nel nostro tempo, è invece molto spesso prefigurato e orientato dalla retorica e dall’ideologia dell’opera, dell’artista e della cultura come oggetto intellettuale da consumare, si potrebbero fare molti esempi. Io non appartengo a questo modo di pensare e non lo condivido.

I miei testi, le presentazioni dei pezzi, alcuni articoli, le interviste e alcune lectures sono raccolti e documentati nel mio website, a disposizione di chi può essere interessato. Riguardano direttamente le mie composizioni e alcuni temi e problemi generali connessi al nostro lavoro. Alcuni testi, che raccolgo sotto il titolo di Note, sono in genere brevi riflessioni, che nascono come semplici appunti di lavoro e che raccolgo ogni due-tre anni, non hanno quasi mai me stesso e il mio lavoro come oggetto. Sono riflessioni offerte a un possibile lettore ignoto e interessato, che si interessa al suono, al lavoro sul suono, alla riflessione sul lavoro e al linguaggio che cerca di dire tutto questo.

Tutte queste riflessioni nascono da e per un impegno umano, quando si riferiscono all’attualità di una questione o di un problema sono sempre esplicite e dirette, spesso nella forma di uno statement definitivo (anche provocatorio). Non sono concepite per convincere, non mi interessa, invece per mettere in comune un punto cruciale e problematico su cui riflettere. Se qualcuno è interessato, deve prima scoprire che esistono e poi cercarle attivamente, e se continua a cercarle significa che per lui hanno un senso e può interagire con loro attivamente.

A questo punto hanno raggiunto il loro primo scopo: portare alla luce una questione di interesse comune. Accanto ai miei lavori, questo è il mio modo di assolvere a un ruolo di impegno umano e sociale. In ogni caso, nelle varie esperienze e contesti concreti che la professione mi propone, ho sempre la possibilità di prendere una posizione, di schierarmi da una parte in modo chiaro e definitivo, di sostenere valori, priorità o di schierarmi contro ciò che mi sembra insensato e ingiusto.

Lo faccio da sempre, come chiunque altro. È importante che io lo faccia. Il fatto che si sappia invece mi sembra secondario, quasi irrilevante.

 

J.G.A. La ricerca del suono, secondo me, è una chiave per comprendere la metodologia del tuo lavoro, nelle tue partiture compaiono spiegazioni dettagliate e istruzioni sugli strumenti che utilizzi. Potrebbe spiegarci da dove viene la sua concezione della ricerca? Vuoi raggiungere un obiettivo durante il processo di scoperta di nuovi suoni? Come concepisci questa metodologia e quali sono i risultati nelle tue composizioni o pensieri?

P.B. Scoprire spontaneamente un suono che prima non conoscevamo è per chiunque una esperienza particolare: uno strumento o una cosa rivelano qualcosa di sé stessi, lo manifestano come suono.

Questo accade anche quando sento per la prima volta un Oboe da Caccia o tocco le corde di budello di un’Arpa o la pelle di un tamburo, o sento una Tromba tibetana, una chitarra elettrica, o faccio vibrare un metallo dalla forma particolare, un apparato elettronico, o ascolto le vibrazioni di un frigorifero o di un impianto di areazione, ecc. Questo strato spontaneo dell’esperienza è preziosissimo, può solo essere sottostimato, ma non è e non fonda una ricerca sul suono.

All’interno della pratica della composizione, ogni suono è ciò che rende possibili tipi e qualità di rapporti fra suoni, quindi un suono ha sempre “due lati”, per così dire: la realtà acustica e meccanica del suono con le sue proprietà e la possibile realtà di rapporti con altri suoni. Ricerca sul suono, o meglio ancora esplorazione del suono, è, quindi e prima di tutto, questo focus aperto che oscilla fra suono e rapporti e li considera entrambi costantemente. Qualche volta è un suono con le sue proprietà particolari, che propone e rende immaginabile e possibile un rapporto ancora ignoto. Altre volte, un possibile rapporto che ci sembra importante, rende necessario uno stato del suono che lo incorpori, che però ancora non esiste, e quindi dovrà essere immaginato, cercato e “scoperto”.

Nel mio caso, esplorazione del suono significa concretamente praticare e studiare uno strumento (o la voce) o un oggetto sonante, comprenderne la natura, le proprietà e i principi di costruzione, diventare familiare con la sua specifica produzione del suono, in alcuni casi reinventare la tecnica di produzione (se esiste), documentarsi sul suo repertorio tecnico e teorico (se esiste), entrare in dialogo con il suo repertorio musicale a 360 gradi (se esiste), esplorarne liberamente le possibilità, prendersi cura di tutti i problemi connessi a una notazione possibile, portare alla luce il senso che mette in moto tutto questo e lo orienta fino a un possibile risultato. Stiamo parlando non solo di anni di lavoro tenace e appassionato, ma di “stagioni” di lavoro.

Ovviamente questo richiede una flessibile disciplina del lavoro e della attenzione, e progetti a lungo termine perché prima di una ricerca orientata (eventualmente motivata da uno scopo pratico, un lavoro imminente, ecc.) viene una esplorazione, che è necessariamente aperta e senza limiti prefissati, e solo a poco a poco definisce le sue linee di sviluppo. Tutto questo è da considerarsi un lavoro preliminare e preparatorio, il cui scopo — per me — è armonizzare consapevolmente il corpo e lo strumento, cioè “diventare” momentaneamente quello strumento, un’estensione o una parte di quello strumento, un po’ come il cavaliere con il cavallo.

Questo aspetto del lavoro di un compositore (musicista) a molti non interessa minimamente, perché ritengono che tutto esiste già nella letteratura specifica e/o nei trattati strumentali e non ci sia nulla da… “scoprire”, solo da usare - come i materiali dell’Ikea, e in ogni caso oggi con il computer si può fare “tutto”. Oppure perché ritengono che il compito elevato della composizione sia occuparsi del suono solo a partire da strutture e processi di costruzione, quindi da una distanza fondamentale dal suono, garantita solo dal pensiero riflessivo e organizzativo.

In questo tipo di pratica esplorativa del suono, imparando dagli errori, si possono mettere a fuoco due rischi iniziali. Il primo è credere di avere assolto un qualche obbligo di originalità (“questo è il mio suono”), e considerare questo compito come un atto “artistico” sufficiente, che dà un senso e uno scopo definitivo al nostro lavoro. Il secondo è perdersi nel labirinto delle possibilità, dove ogni minima differenza sembra preziosa e irrinunciabile, come nelle collezioni di farfalle, ma tutto è sullo stesso livello di importanza, e così diventa al tempo stesso piatto, indifferente e quindi sterile.

Ma la cosa più importante (e forse il rischio più grosso), ciò che secondo me è il senso profondo di una esplorazione del suono, è diventare consapevoli della propria concezione del suono ereditata dal passato e di quella condivisa con il presente, perdersi volontariamente nelle proprietà del suono note e ignote, quelle che ci sono estranee e quelle nascoste, toccare e avvertire distintamente i limiti del nostro pensiero del suono, per avvicinarsi al punto dove il concetto stesso di suono potrebbe mutare…

 


J.G.A. Troviamo nel tuo catalogo musicale soprattutto opere per solisti (cosa insolita nella musica contemporanea), per formazioni da camera e ensemble, ma pochi brani per orchestra (nessuno negli ultimi anni e più vicini all'inizio della tua carriera) e non hai composto diciamo un "opera" o teatro musicale.

In un noto compositore come te, avendo ricevuto importanti riconoscimenti, e il tuo lavoro è regolarmente programmato nei festival più prestigiosi, il rapporto tra la tua scelta strumentale generalmente "modesta e ridotta" rispetto ai "generi maggiori" che solitamente accompagnano compositori famosi come te non sono i soliti. Inoltre, le implicazioni ei problemi dei "generi principali" sono evidenti in riferimento alle questioni economiche e politiche che di solito connotano. Ma non credo che la scelta della strumentazione si possa ridurre a mera questione logistica o di budget, inoltre ha risvolti e connota scelte estetiche e ideologiche.

Potresti spiegarci questi problemi in riferimento alla tua musica?

P.B. Il contesto professionale-culturale e le condizioni di lavoro aperte e flessibili degli anni 60- 80, per esempio, non esistono più. Le condizioni attuali di lavoro sono estremamente rigide, e quelle più aperte sono un privilegio di pochissimi. Questo indica chiaramente che qualcosa di essenziale è cambiato.

Bisogna considerare che Orchestra, Opera, Teatro musicale, non sono semplicemente un genere musicale, sono sempre una situazione concreta, legata all’attività di grosse istituzioni che sono “produttori” di oggetti culturali. Inevitabilmente, questo ha a che fare con concreti limiti professionali suggeriti o imposti dal committente (spesso impliciti, e che diventano però la condizione di esistenza del lavoro), disponibilità dei mezzi (strumenti, apparecchiature, spazio della performance), quantità di prove, sensibilità e competenza del direttore d’orchestra e dei solisti, sensibilità, disponibilità e interesse dei musicisti, tipo di ascolto legato al contesto e al luogo della performance.

È chiaro che se un compositore qui “si sente a casa” ed è interessato a fare riconoscere e apprezzare il proprio lavoro da questi contesti, accetterà senza problemi queste condizioni, perché di fatto le considera ovvie e non-problematiche.

Ho avuto la possibilità di scrivere per tre orchestre (tedesche e austriache) con una certa esperienza di prime esecuzioni: WDR (1999), ORF (2007), SWR (2011). Dopo queste tre esperienze, nelle quali ho investito molte delle mie migliori energie, non avendo mai avuto le condizioni necessarie e sufficienti per un buon risultato, essendo stata ogni volta la prima e ultima esecuzione dei lavori, ho capito definitivamente che non è la mia dimensione. Quindi, diciamo…”non mi sento a casa”.

Molto semplicemente, non è accettabile avere 4-6 ore di prove per un nuovo pezzo orchestrale di 30 minuti, che ha delle difficoltà tecniche specifiche, con la quasi totalità dei musicisti disinteressati e contro, scarsa disponibilità del management a venire incontro alle esigenze tecniche, in qualche caso un direttore d’orchestra disinteressato che non si impegna nella concertazione, e in molti casi una audience che si aspetta soprattutto dell’intrattenimento. Se poi pensiamo a un’Opera, per una Casa d’opera, cioè una istituzione nata e sviluppata per il repertorio operistico, che impone limiti rigidissimi, spesso anche gli interpreti, che è sempre una enorme “macchina burocratica”, significa accettare condizioni di lavoro ancora più rigide. Queste sembrano questioni strettamente pratiche e/o professionali.

Si tratta però di comprendere che queste istituzioni e i Festival a cui sono legati, hanno una loro vera e propria “cultura del suono” (che definisce ciò che è musicalmente sensato, interessante e quindi accettabile/possibile per loro). Questa cultura del suono orienterà tutti gli aspetti del lavoro: per esempio, in questi contesti è più facile chiedere a un musicista di suonare una macchina da scrivere o un giocattolo, perché gli è completamente indifferente, mentre farlo impegnare in una tecnica strumentale che non conosce e non è interessato a padroneggiare, genera immediatamente una reazione contraria.

Mi sono chiesto che senso profondo ha tutto questo, ho risposto, e quindi ho deciso di staccarmi. È certamente l’Ensemble, in tutte le sue articolazioni, la dimensione professionale attuale più flessibile e aperta, che può ancora essere un luogo di sperimentazione reale e dove il rapporto fra compositore e musicisti è più diretto, quasi personale. Mi sembra ovvio e sensato essere più interessato a questa dimensione. Come però è evidente dal mio catalogo dei lavori, il centro del mio interesse è focalizzato sulla dimensione solistica, o due-tre interpreti. Ci sono alcune buone ragioni fondamentali.

Innanzitutto l’interesse e la passione per “avventure strumentali” aperte, che mi consentono di spostare e superare dei limiti, che posso decidere liberamente. Il fattore decisivo è che un solista (un piccolo gruppo da camera) ha la possibilità di lavorare con una certa indipendenza, e questo riduce moltissimo i condizionamenti professionali più consueti.

Perciò, come compositore posso scrivere e lavorare per un modello di interprete (reale o da trovare) che, a partire dalla sua competenza, capacità, autenticità e originalità, sia completamente aperto e interessato a impegnarsi in lavori sperimentali e di un certo impegno tecnico-interpretativo. Quindi, il suo lavoro può sviluppare in modo sensato il mio, lavoriamo insieme da subito alla stessa cosa e nello stesso modo, per così dire. Lo scopo e le condizioni di lavoro possono essere decisi e scelti liberamente insieme. La dimensione della musica solistica, per quanto mi riguarda, proprio per le condizioni reali in cui accade è quella che ha maggiormente la possibilità di unificare interprete e ascoltatore, quasi annullare la differenza dei ruoli, e questo per me è fondamentale.

Questa particolare situazione si potrebbe descrivere così: due uomini (l’interprete e l’ascoltatore) sono in un contatto diretto e strettissimo, si impegnano in una comune avventura-esplorazione del suono, i cui limiti sono aperti e dipendono soprattutto dalla loro reciproca appassionata disponibilità. L’unica differenza fra questi due uomini, unificati dallo stesso evento, si potrebbe definire così: tutti e due ascoltano, uno (l’interprete) lavora per far apparire il suono, l’altro (l’ascoltatore) dà un senso al lavoro del primo.

Ma questo è quello che la Musica genera sempre!
No, non direi.

 

J.G.A. Infine, poiché i tuoi scritti sono numerosi ed elaborati, che posto occupa la riflessione nel tuo lavoro? Le tue conferenze sono generalmente molto organizzate. Hai riferimenti o libri su cui ti basi per quanto riguarda la teoria musicale?

P.B. Riflettere sul proprio lavoro, e più in generale sui problemi e le questioni legate al lavoro in tutti i suoi aspetti, mi sembra necessario.

Innanzitutto, è certamente uno dei modi per acquisire una minima distanza critica dal proprio punto di vista, che è sempre limitato e troppo individuale, anche se ovviamente è l’unico che possediamo. Poi è l’occasione per avvicinare altri punti di vista. Naturalmente ci sono molti modi. Il modo più diretto, interessante e fertile è certamente il dialogo reale con altre persone, quando si creano le condizioni favorevoli e le persone sono sinceramente e appassionatamente pronte ad aprirsi e confrontarsi.

Quando si tratta di riflessioni scritte invece, entriamo in una dimensione indiretta, non meno importante, dove però l’interlocutore è da subito anonimo e distante, non interagisce, e questo muta completamente le condizioni e l’oggetto della riflessione. Come accennavo prima, è il caso delle mie piccole raccolte di riflessioni con il titolo Note, che nascono durante il lavoro della composizione, vengono elaborate molto lentamente, e quasi mai riguardano me stesso in prima persona.

Uno stadio intermedio è certamente la lecture o la conferenza, che è la dimensione ideale per riflessioni molto generali e/o teoriche, dove un testo scritto è concepito per una occasione specifica, un contesto e una audience reale, che potrà poi comunque interagire, anche se non si tratta di un dialogo immediato. Il seminario è poi una dimensione diversa, un’occasione di studio dove chi propone e mostra quello che ha scoperto ed elaborato, ha la necessità immediata di essere compreso e seguito da chi vi partecipa, altrimenti non ha senso.

Il seminario è una dimensione che mi interessa particolarmente, e a cui ho dedicato sempre molto impegno e molte energie, e come free-lance ho avuto una grandissima libertà in questo campo. Non mi sono occupato spesso dei miei lavori, perché quello che mi interessa di più è occuparmi di lavori e opere di altri compositori o di temi generali molto aperti, anche inusuali. Il mio scopo è far nascere nei partecipanti una comprensione diretta di alcune questioni fondamentali, farne sentire l’importanza e favorire il desiderio di proseguire questo lavoro autonomamente e creativamente.

Qualche volta mi è riuscito. Per fare questo non sempre sono necessari dei testi già esistenti come riferimento o fonte (in qualche caso non esiste neanche una letteratura utile), perché non è una questione di riferirsi ad analisi già fatte, concetti già definiti, con le loro tabelle e rappresentazioni grafiche, dove tutto è già inquadrato razionalmente e non c’è più nulla da domandare e spiegare ecc.

A me interessano le domande e le questioni aperte, e queste si mostrano solo in un dialogo reale con l’opera. Il seminario quindi, almeno per la mia sensibilità, resta un dialogo aperto con un’opera.